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Per l'occasione ... una rinfrescata alla memoria... non tutto condivsibile chiaramente

3/6/2008
Commento al post "Sulla famiglia appropriazione indebita del Pdl" lasciato da Gordon Brown

Una sconfitta politica che si concreta in due elementi: 1) il PD non è riuscito nell’impresa di fare breccia al centro, alla sua destra, che era il cuore della strategia veltroniana, e, per converso, la Sinistra arcobaleno, dalla quale ci si era separati consensualmente nella logica della “divisione del lavoro” e della rappresentanza, è invece scomparsa dal parlamento; 2) a consuntivo, il campo del centrosinistra ha registrato sia una divisione strategica che una contrazione quantitativa. Sia chiaro: la Sinistra arcobaleno meritava una lezione, è cosa buona e giusta che il suo gruppo dirigente – un ceto politico autoreferenziale – sia stato mandato a casa. Ma quella sensibilità sociale e politica merita una rappresentanza e il PD, con essa, ancorché dialetticamente, non può non interloquire.

A modo di promemoria, isolo cinque questioni sulle quali, a mio avviso, il PD dovrà interrogarsi.

Prima questione: la dissociazione del PD dal governo Prodi e la sua rassegnazione a subire acriticamente la campagna denigratoria orchestrata dall’opposizione è stata forse ingiusta ma di sicuro vana. Il governo Prodi non si risolveva nella persona del premier. L’intero gruppo dirigente del PD ne rappresentava la struttura portante. Berlusconi ha avuto buon gioco nel rimarcarlo. Forse sarebbe stato più onesto e più utile rivendicare senza timidezze le cose buone che pure il governo ha fatto: risanamento, liberalizzazioni, protocollo welfare, europeismo e missioni internazionali.

Secondo: la conclamata vocazione maggioritaria del PD rischia di risolversi nel suo contrario, cioè in una vocazione minoritaria, a motivo di una protestata autosufficienza che conduce a sicura sconfitta. La vocazione maggioritaria non esclude ma, all’opposto, implica un’attitudine coalizionale. La presunzione di autosufficienza, celebrata dagli opinionisti e persino da avversari non innocenti (penso all’entusiasmo di Giuliano Ferrara), conduce a un partito dipinto come bello, bellissimo nel suo splendido isolamento, ma votato alla sconfitta.

Terzo problema: l’eccezione di alleanze non riconducibili a un filo di coerenza. La teoria dell’ ”andiamo da soli” aveva una sua forza e una sua suggestione, magari nel quadro di una sconfitta programmata ma anche di un limpido investimento sul futuro. Poi però si è fatta eccezione con Di Pietro, un alleato tra i meno affini, che puntualmente si è sganciato un minuto dopo il voto. Per converso si è chiuso ermeticamente ai Socialisti, la forza palesemente più vicina dal punto di vista politico e programmatico, che aveva il torto (sic!) di esibire la sigla socialista fuori dal PD e dunque di evocare il passato degli ex PCI. Infine, con i Radicali, si è siglato un patto ancora diverso: l’ospitalità di candidature nelle liste del PD. Soluzione doppiamente discutibile: sia perché, cancellando il logo dei Radicali, l’operazione non ha portato un valore aggiunto, sia perché, a dispetto delle intenzioni minimaliste, si è trasmesso il messaggio di un inquinamento del profilo e della proposta del PD presso un elettorato cattolico moderato rifluito sull’Udc. Meglio sarebbe stata una limpida alleanza politico-elettorale con un soggetto esterno e distinto, alla stessa stregua dell’Idv. Delle due l’una: o stretta coerenza con il proposito di correre soli e liberi o un PD, secondo l’ispirazione ulivista, inteso quale motore e timone di un quadro di alleanze politicamente e programmaticamente omogenee (con Socialisti, Radicali, Idv e magari Sinistra democratica spinta controvoglia tra le braccia di Bertinotti). Non si è seguita né l’una né l’altra via.

Quarto: il PD ha scontato un processo costituente incompiuto. Le leadership personali, ancorché brillanti, non bastano. La Lega insegna. Si richiede un partito degno di questo nome, un interlocuzione stabile e strutturata con la società da parte di un organismo collettivo vivente. La composizione delle liste, con in testa nomi specchietto e, a seguire, la burocrazia di partito, sta a testimoniare un ritardo che si è pagato.

Quinta questione: un deficit di “antiberlusconismo democratico”. Un’ espressione mutuata, per analogia, dalla categoria storiografica dell’”anticomunismo democratico”. C’è un antiberlusconismo ideologico da rigettare, ma c’è anche un antiberlusconismo positivo che si nutre della consapevolezza della peculiarità-anomalia di Berlusconi per i moduli di una moderna democrazia liberale. Così l’antiberlusconismo grossier se lo è intestato tutto Di Pietro. Lo ha osservato criticamente Sartori, a fronte di un irenismo che ha assunto accenti un po’ grotteschi con la cura ossessiva di non pronunciare il nome di Berlusconi. Salvo, l’ultima settimana, evocare le minacce alla legalità repubblicana con la lettera di Veltroni al Cavaliere e da lui respinta con studiato sdegno.



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31 Maggio 2015
Postato da Redazione

Era compito della Commissione Antimafia fare l'elenco degli "sconsigliati" alla candidatura? Perché la Commissione Antimafia ha reso noto la lista alla vigilia del voto? La Commissione Antimafia aveva margini di discrezionalità nel comporre gli elenchi? Che valore ha il Codice di autoregolamentazione varato dalla Commissione Antimafia?
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