
Rafforzare i centri di salute mentale
di Nerina Dirindin - da L'UnitàL’omicidio della dottoressa Paola Labriola di Bari è l’ennesima morte sul lavoro, di fronte alla quale non può che esserci rispetto e meditata partecipazione. Per chi si occupa di politiche sanitarie, l'omicidio è anche l'occasione per riflettere ancora una volta sulle azioni necessarie per qualificare l'attività svolta dai servizi di salute mentale, promuovere servizi inclusivi ed integrati e migliorare le condizioni di lavoro degli operatori.
Una premessa è necessaria: a uccidere la dottoressa Labriola è stato un giovane uomo, non la malattia mentale. La relazione tra violenza e malattia mentale, luogo comune molto diffuso, non è dimostrata dalle evidenze scientifiche. Anche nei casi in cui comportamenti violenti e disturbo mentale sono associati, le ricerche non documentano un rapporto di causa-effetto; anzi i dati mostrano che il tasso di reati gravi commesso da persone con disturbo mentale non è superiore a quello dei cosiddetti «normali». Non si può quindi rispondere a questi episodi invocando solo il ricorso a misure di sicurezza. In Italia i manicomi sono chiusi da ben 35 anni e, malgrado le più nere previsioni, non abbiamo assistito ad una crescita generalizzata della criminalità legata alla malattia mentale, né ad un aumento drammatico degli internati negli ospedali psichiatrici giudiziari. La riduzione dei livelli di violenza si ottiene con la cultura dell'accoglienza, facendo in modo che le persone siano seguite da una adeguata rete di servizi; non si ottiene con un aumento del numero di telecamere, guardie giurate e campanelli d'allarme applicati a servizi scadenti e sottofinanziati. Per fare in modo che gli operatori -e anche i pazienti- siano al sicuro, le persone devono essere inserite in un sistema territoriale di servizi efficiente.
Quando i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura funzionano bene, a porte aperte e senza contenzione fisica, gli episodi di aggressività dei ricoverati sono significativamente inferiori a quelli registrati dove le porte sono chiuse e si pratica la contenzione meccanica. È alla luce di questi dati e dell'analisi delle buone prassi che bisogna domandarsi cosa possiamo fare perché tragedie come quella di Bari non accadano più. Come scritto nella legge 180 e nei progetti obiettivo di salute mentale, servono servizi di salute mentali «forti», dotati di adeguate risorse umane, radicati nel territorio ed integrati con gli altri servizi socio-sanitari: Centri di Salute Mentale aperti sette giorni alla settimana, almeno 12 ore al giorno, capaci di accogliere la persona nella sua globalità di bisogni e farsi carico del suo contesto socio-familiare, sostenerla negli ambienti naturali di vita avviando progetti individualizzati e attivando i budget di salute. Ad oggi, nella quasi totalità delle Regioni, i Csm sono invece solo ambulatori specialistici che forniscono risposte frammentate e parcellizzate, dove gli operatori lavorano da soli, spesso demotivati, quando non in pericolo. Paola Labriola era sola a fare accoglienza: non mancava la guardia giurata come alcuni hanno detto, ma mancava l'equipe, mancava una rete di servizi di supporto. E continuare a far mancare quella rete, non migliora la sicurezza di nessuno, ma rende tutti noi corresponsabili di questi episodi drammatici. E la morte della dottoressa Labriola non è, purtroppo, che la più recente di una lunga lista di morti, su differenti fronti, frutto della difficoltà a realizzare un reale rinnovamento nei servizi di salute mentale. Ricordiamo Giuseppe Casu, morto a Cagliari dopo aver trascorso 144 ore legato al letto, oppure Franco Mastrogiovanni, morto a Vallo della Lucania nelle stesse tragiche condizioni, dopo 84 ore. E l'ultimo tragico episodio, che risale solo al 12 agosto, a Civitavecchia, dove un uomo ha cercato di liberarsi dai lacci che lo costringevano usando un accendino, finendo per bruciare vivo.
La politica di riordino dell'organizzazione dei servizi della salute mentale preannunciata in Puglia meriterebbe qualche approfondimento. L'accorpamento dei servizi territoriali porterà sì ad un aumento di personale, ma a fronte di una triplicazione del bacino d'utenza per ogni Csm, aumentando la distanza degli operatori dalla comunità, dalla quotidianità della vita delle persone. Preoccupa che la Puglia spenda due terzi delle risorse per la salute mentale per ricoveri in istituti, strutture e comunità sedicenti terapeutiche e che i dieci Servizi psichiatrici ospedalieri di diagnosi e cura, sempre affollati, operino con le porte chiuse e facciano ricorso alla contenzione. Si torni invece ad investire sui servizi territoriali, mantenendoli vicini ai pazienti e alle loro famiglie; riqualifichiamo la spesa, sosteniamo e rimotiviamo gli operatori, riconoscendo loro professionalità e dedizione. Evitiamo di attribuire troppo facilmente le responsabilità degli episodi drammatici ai pazienti e asteniamoci dal strumentalizzare le morti.

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31 Maggio 2015
Postato da Redazione
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