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22/6/2013

Un PD contendibile
di Franco Monaco - da Europa


Pur non avendo rivestito ruoli di responsabilità di particolare rilievo nella stagione politica del PD che si è chiusa con una vittoria elettorale mutilata che tuttavia si è risolta in una sconfitta politica, mi sento, pro quota, in solido, corresponsabile di tale sconfitta. La ragione è presto detta: ho condiviso la linea politica seguita da Bersani. A ben vedere, una linea avallata da deliberati formali degli organi di direzione politica quasi sempre assunti all'unanimità. Non mi piacciono coloro che ora si esercitano nel fare di Bersani il solo capro espiatorio, quasi che le responsabilità non fossero più largamente condivise. Nè mi piacciono coloro che oggi maramaldeggiano, ma in verità in passato lo criticarono dalla parte rivelatasi la più sbagliata, tipo i teorici di un PD che avrebbe dovuto adottare in fotocopia l'agenda Monti. Penso a coloro che, alla sconfitta di Bersani, oppongono i fasti dell'era Veltroni. Quel 2008 nel quale, dopo avere (preterintenzionalmente?) concorso alla caduta del secondo governo Prodi, il PD conseguì quel tanto celebrato 33% al prezzo della cannibalizzazione dei suoi naturali alleati con il risultato di scontare una distanza mai così grande tra i due campi avversi e di consegnare a Berlusconi una maggioranza bulgara. Una sconfitta cui ne seguirono altre (Roma, Abbruzzo, Sardegna...) sino alle dimissioni di Veltroni con un PD stimato al 22% di cui si vorrebbe ci si dimenticasse.

Non ci fu mai quell'età dell'oro. Non c'è una ricetta da riproporre. Ma certo la sconfitta recente è bruciante. E chi ne porta la responsabilità - non Bersani soltanto, ma l'intero gruppo dirigente - appunto in nome del principio di responsabilità, che in politica è di natura sua collettiva, deve fare un passo indietro. Per parafrasare Bersani che mise in circolo l'espressione "ora tocca a noi", all'opposto direi "ora tocca ad altri". Si richiede un ricambio.

Fuor di ipocrisia, la discussione sulle regole e sull'impianto congressuale ha a che fare con questo problema. Difficile sottrarsi all'impressione che la querelle sulla riforma delle norme statutarie sottintenda un conflitto tra coloro che hanno guidato il partito sino a ieri e quanti, legittimamente, aspirano a sostituirsi ad essi.

Ecco perché diffido della correzione delle regole che si vorrebbe operare. Di tutte e tre le correzioni. Quella che mira a restringere il perimetro dell'elettorato attivo del leader PD ai soli iscritti, in controtendenza con la domanda di partecipazione e di confronto tra il popolo democratico. Quella di un congresso scandito in due fasi, con la elezione degli organi a tutti i livelli, a monte della proposizione di candidati e piattaforme politiche nazionali che sole possono conferire il giusto carattere politico al confronto sin dai circoli locali che hanno una gran voglia di discutere di politica. E soprattutto - terza e decisiva questione - la separazione tra leader PD e candidato premier, che, a cascata, autorizzerebbe le due precedenti correzioni. Con un argomento francamente debolissimo: quello secondo il quale uno dei nostri, cioè Enrico Letta, è premier in carica. Due le facili obiezioni: a) le regole, specie quelle statutarie che definiscono l'identità del partito, non si piegano alla contingenza, semmai vi si può occasionalmente derogare con largo consenso (come già si è fatto); b) Letta è premier di un governo figlio di uno stato di necessità, con una sua missione da compiere, ma a palazzo Chigi egli non è entrato, diciamo così, dalla porta principale seguendo il percorso appropriato: da leader del PD poi candidato premier e comunque alla testa di un governo di centrosinistra. Questo è un punto cruciale: il giudizio sulla natura del governo Letta. O vogliamo ignorare la peculiarità/eccezionalità di questa maggioranza e di questo governo? Già ci stiamo inavvertitamente acconciando all'idea che questo è il migliore dei governi possibili?

Insomma, il PD non deve rinunciare al modello di democrazia competitiva dentro e fuori di esso. La cosa favorisce Renzi? Anche a me Renzi deve ancora convincere, ma questo non è un buon argomento per cambiare le regole. Chi non si riconosce in Renzi gli opponga un candidato alternativo, possibilmente competitivo. Non manometta le regole per scoraggiarne la corsa o per imbrigliarlo. Nè coltivi l'idea, sbagliata e velleitaria, di un doppio livello: quello di un Renzi che si gioca in solitudine la partita a premier con un partito controllato dal vecchio gruppo dirigente sconfitto a lui ostile. Un tale schema sarebbe doppiamente dannoso: da un lato un PD dominato dal continuismo di una gestione oligarchica e che ha trasmesso all'esterno quell'immagine di vecchiezza e autoreferenzialità che ha gonfiato le vele dell'astensionismo e di 5 stelle; dall'altro un Renzi che si sentirebbe esonerato dall'onore e dall'onere di occuparsi anche del partito, di rivitalizzarlo. E magari sospinto a punzecchiare ogni giorno PD e governo Letta. Forse gli riuscirebbe più facile, essendo evidente che, per lui, è più agevole fare breccia tra quelli di fuori che non tra quelli di dentro. Tale schema duale non funzionerebbe.

Lo si lasci dire a uno che ha seguito da vicino l'avventura di Prodi, il cui limite fu quello di non disporre di un suo partito, ma di essere ostaggio di partiti dominati da leader e oligarchie ove non sempre l'interesse superiore della coalizione (e del paese) aveva la meglio sugli interessi particolari, politici, personali o di gruppo. Una condizione che Prodi ha scontato da premier e, più di recente, nella mancata elezione al Quirinale. Ma questa è un altra storia.




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31 Maggio 2015
Postato da Redazione

Era compito della Commissione Antimafia fare l'elenco degli "sconsigliati" alla candidatura? Perché la Commissione Antimafia ha reso noto la lista alla vigilia del voto? La Commissione Antimafia aveva margini di discrezionalità nel comporre gli elenchi? Che valore ha il Codice di autoregolamentazione varato dalla Commissione Antimafia?
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