
Aumentano, anche nel campo del centrosinistra, l'interesse e i consensi per il semi-presidenzialismo. È comprensibile. L'incertezza del quadro politico e la debolezza dei meccanismi di integrazione sociale sembrano rendere necessario un centro istituzionale unificante. Un centro istituzionale che allo stesso tempo semplifichi le alternative politiche e spinga all'aggregazione del consenso del corpo elettorale, riversandolo su un destinatario chiaro e visibile. È comprensibile, appunto. Ma non per questo è convincente.
Il semipresidenzialismo è una forma di governo a geometria variabile. Se la maggioranza che ha vinto le elezioni legislative è la stessa che ha vinto quelle presidenziali, il presidente diventa il vero capo dell'esecutivo, riducendo il Primo ministro al ruolo di comprimario. La diretta investitura popolare, poi, lo sgancia del tutto dal Parlamento, anche perché l'arma principale delle assemblee rappresentative, il voto di fiducia, può essere puntata solo sul governo, e quindi su un bersaglio che in questo caso non conta.
Questa bizzarra costruzione è stata elaborata in Francia per precise ragioni storiche: come tutti sanno, si trattava di creare una notevole concentrazione di potere per uscire dalla crisi d'Algeria. Successivamente, per qualcuno, anche lo status di potenza nucleare della Francia ne avrebbe rafforzato le ragioni, perché sarebbe divenuto opportuno che la valigetta con i codici del fuoco atomico fosse nelle mani dell'eletto dai cittadini francesi.
Funzionerebbe, da noi, questo sistema? Dico subito che è bene affrontare questo quesito senza un eccesso di pre-giudizi: la Francia è un Paese democratico e il semipresidenzialismo non equivale di per sé ad autoritarismo. Proprio se la questione si affronta con freddezza, però, i dubbi si fanno più che consistenti.
Vediamo, anzitutto, cosa accadrebbe nella prima ipotesi. Sul piano istituzionale avremmo una formidabile concentrazione di potere nelle mani del presidente, senza alcun reale contrappeso istituzionale (i contrappesi, semmai, ci sono nel sistema presidenziale, all'americana, per intenderci). Su quello socio-politico, invece, resterebbe la spaccatura fra due (o più?) parti del Paese nettamente contrapposte. Avremmo, allora, istituzioni formalmente fortissime, ma sostanzialmente impotenti, perché in democrazia non basta avere poteri di governo perché gli atti di governo siano efficaci: serve anche che ci sia una qualche predisposizione al consenso da parte di chi di quegli atti è il destinatario. Si potrebbe obiettare che la radicalità della contrapposizione politica potrebbe non essere una costante della storia italiana, ma non è con i forse che si fanno buone politiche istituzionali.
Nella seconda ipotesi le cose, se possibile, andrebbero anche peggio: non è difficile prevedere che la legittimazione presidenziale diretta sarebbe costantemente contrapposta a quella parlamentare, con effetti di paralisi o di delegittimazione reciproca. Anche qui si può obiettare che in Francia questo non è accaduto, ma è facile constatare, per l'ennesima volta, che lo spirito repubblicano e il sentimento dell'interesse nazionale che ancora sono presenti nell'Esagono sono stati e sono assai più deboli nello Stivale.
Certo, si potrebbe dire che anche il nostro ordinamento ha già sperimentato forme di legittimazione diretta, visto che sindaci e presidenti di Regione sono legittimati dal voto popolare sulle loro persone. Così ragionando, però, si sovrappongono realtà politiche e istituzionali che non sono commensurabili: i poteri delle autonomie territoriali non sono quelli dello Stato e i rapporti fra i partiti a livello locale non sono quelli che si maturano su scala nazionale.
A me sembra, in realtà, che chi imbocca la strada del semipresidenzialismo corra due rischi. Il primo è quello di percorrere una scorciatoia, trascurando la profondità dei problemi del nostro sistema politico (che esige una vera e propria rifondazione dei partiti e del loro rapporto col territorio). Il secondo è quello speculare di puntare alla palingenesi della forma di governo quando, forse, bastano alcuni ritocchi sapienti (riforma del bicameralismo e della legge elettorale in primis) per far funzionare meglio quello che già abbiamo. Il conservatorismo aprioristico, insomma, non va bene. Ma i salti nel buio vanno ancora peggio.

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Lasciato da Luigi AUGELLO il giorno 02 Novembre 2014 alle 23:15


Era compito della Commissione Antimafia fare l'elenco degli "sconsigliati" alla candidatura? Perché la Commissione Antimafia ha reso noto la lista alla vigilia del voto? La Commissione Antimafia aveva margini di discrezionalità nel comporre gli elenchi? Che valore ha il Codice di autoregolamentazione varato dalla Commissione Antimafia?
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