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6/5/2013

Un errore le larghe intese, meglio un governo istituzionale
di Franco Monaco - da L'Unità


Votai contro il via libera della direzione Pd a un governo di larghe intese a tutto tondo politico, cui avrei preferito un governo istituzionale, meno politicamente impegnativo e coinvolgente. Anche per ragioni di metodo e di coerenza nella linea politica. Troppe le oscillazioni: nel giro di due mesi siamo passati dal governo per il quale si era cercato il sostegno del M5S, al governo di minoranza che altri avrebbero dovuto «non impedire», al governo di scopo o del presidente, sino appunto al governissimo cui siamo nostro malgrado approdati un'ora prima delle consultazioni al Quirinale. Concedendo a Enrico Letta ciò che Bersani, e noi con lui, rifiutammo subito dopo il voto: un governo Bersani che il Pdl si rese immediatamente pronto a sostenere.

A questa soluzione siamo giunti, dopo la nostra debacle nell'elezione al Quirinale, all'insegna del motto: ci affidiamo al presidente Napolitano (rieletto). Formula dal sapore deresponsabilizzante. Cui ci siamo consegnati sul presupposto che non fossimo nelle condizioni di porre condizioni. In una democrazia parlamentare, le responsabilità del capo dello Stato e quelle delle forze politiche sono istituzionalmente distinte. E noi siamo la più grande forza parlamentare. Qualcuno ha teorizzato che su di noi incombesse l'obbligo di un sì o di un no. Mi permetto di dissentire: noi avremmo potuto e dovuto almeno accompagnare il sì con una parola circa il «come» del governo. Cioè circa la sua natura e il suo profilo. Altrimenti i partiti che ci stanno a fare?

Detto questo, so bene che al punto in cui si erano spinte le cose l'alternativa secca era odi nuovo il voto (insidioso e comunque inutile, perché plausibilmente avrebbe prodotto il medesimo risultato, magari a parti invertite tra Pd e Pdl) o un governo nel quale, inesorabilmente, mescolare i nostri con i loro voti. Ma ripeto: un governo istituzionale con obiettivi limitati e di breve durata sarebbe stato cosa diversa da un governo politico. Già ne abbiamo i primi riscontri. Ne segnalo tre. Su fronti decisivi: la questione sociale, la questione istituzionale, la rappresentazione/narrazione della fase politica.

Si prenda la prima disputa che si è aperta sull'Imu. Al netto del significato simbolico e propagandistico di Berlusconi che, con essa, chiaramente si propone di mettere il sigillo della sua egemonia sul governo, la discussione riflette un dissenso di sostanza sulle priorità ideali e programmatiche tra Pd e Pdl: a fronte di risorse scarse e dentro una crisi sociale drammatica noi anteponiamo l'uguaglianza e il lavoro, loro la riduzione fiscale generalizzata e la rendita. La buona politica esige certo il compromesso, ma non sarà facile mettere d'accordo Brunetta e Fassina.

Sulle riforme istituzionali si è evocata una Convenzione. Diciamo la verità: lo abbiamo fatto soprattutto noi, subito dopo il voto, con la teoria dei due cerchi, nell'illusione di portare a casa il nostro governo offrendo la Convenzione a chi avrebbe dovuto «non impedirci» il suo insediamento. Forse con un po' di leggerezza. Lo ha ripetuto il premier Letta nel suo discorso alle Camere, legando ancor di più il destino del governo al buon esito delle riforme costituzionali. E già ora siamo alle prese non solo con l'ambizione/pretesa blasfema di Berlusconi alla presidenza, ma, prima ancora, con la questione, ancor più cruciale, dei poteri da assegnare a tale Convenzione.

Poteri che qualcuno immagina redigenti, con il Parlamento costretto ad autolimitarsi a un sì o un no a valle, senza potere intervenire nel merito. Una deroga alla procedura di revisione contemplata in Costituzione che - ha ragione Rodotà - si configura come uno strappo. Da parte di un organo, la Convenzione, comunque privo di legittimazione e di esplicito mandato costituente, non fosse altro perché non eletto dai cittadini su base proporzionale. Mi chiedo: merita mettere a rischio la Costituzione in cambio di un incerto e sempre revocabile sostegno a un governo a sua volta figlio di un compromesso per noi tanto costoso?

Infine, la narrazione della fase. Essa è condensata dai nostri partner-avversari (e talvolta anche dalle nostre parti) nella parola «pacificazione», di cui dovremmo conoscere le insidie e l'ambiguità. Pacificazione come oblio, come confusione delle responsabilità, come omologazione di berlusconismo e antiberlusconismo. Come se i nostri venti anni di contrasto con gli abusi di potere, il conflitto di interessi, gli assalti agli organi di garanzia, il degrado morale fossero da attribuire ad accecamento ideologico. L'antibelusconismo come ideologia, come vizio o quantomeno come esagerazione estremistica.

Il governo è importante, ma non è meno importante il dovere di non avallare una lettura dei venti anni alle nostre spalle che contraddica verità e responsabilità. Anche perché chi verrà dopo di noi ne tragga lezione. Sarebbe paradossale che la forza sovversiva della verità di cui ha fatto parola Enrico Letta si risolvesse nella teoria della indistinzione tra ragioni e torti, tra legalità e illegalità, tra giustizia e protervia. Tutto e tutti nello stesso mazzo. Sarebbe la vittoria su tutti i fronti del verbo di Beppe Grillo.

 

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31 Maggio 2015
Postato da Redazione

Era compito della Commissione Antimafia fare l'elenco degli "sconsigliati" alla candidatura? Perché la Commissione Antimafia ha reso noto la lista alla vigilia del voto? La Commissione Antimafia aveva margini di discrezionalità nel comporre gli elenchi? Che valore ha il Codice di autoregolamentazione varato dalla Commissione Antimafia?
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