
Non ci sono ormai più parole per commentare la interminabile e sempre più scandalosa vicenda delle relazioni sindacali e del lavoro nelle aziende della Fiat guidata da Marchionne. Questa impresa, che per quasi un secolo è cresciuta in Italia anche grazie alle generose politiche pubbliche, negli ultimi anni ha adottato i seguenti comportamenti:
1. Ha imposto un insieme di regolamenti aziendali, travestiti da contratti collettivi, caratterizzati da un inasprimento della condizione di lavoro e da clausole costituzionalmente illegittime come quelle relative alla limitazione del diritto di sciopero in nome di un fantomatico progetto denominato "Fabbrica Italia" che avrebbe dovuto comportare un investimento di 20 miliardi.
2. È uscita da Confindustria per liberarsi del contratto nazionale dei metalmeccanici e dare vita a un accordo separato di tipo aziendalistico.
3. Ha espulso dalla rappresentanza aziendale il sindacato dissenziente, la Fiom-Cgil, con plateale violazione del principio di libertà sindacale.
4. Ha ripetutamente disatteso le sentenze della magistratura, come quella che ha condannato l'impresa alla riassunzione dei tre delegati licenziati a Melfi per motivi antisindacali.
5. Ha assunto quasi duemila dipendenti nello stabilimento di Pomigliano senza che tra questi vi fosse neppure un iscritto alla Fiom-Cgil.
6. Da ultimo, essendo stata condannata ancora una volta per comportamento discriminatorio con una sentenza in cui si ordina di assumere a Pomigliano una quota di lavoratori iscritti alla Fiom proporzionata al tasso di sindacalizzazione, annuncia che per adeguarsi a quella sentenza licenzierà altrettanti lavoratori già assunti.
Quest'ultima iniziativa della Fiat aggiunge a tutto ciò che era già intollerabile un tocco ulteriore di inciviltà: si promuove dichiaratamente la guerra tra poveri, il conflitto tra quanti per vivere devono lavorare, tra coloro che «collaborano» al progetto aziendale e quanti «dissentono», come facevano due secoli fa i padroni delle miniere. Questo è davvero troppo.
Qualcuno, soprattutto da Palazzo Chigi, di solito così loquace, dovrebbe ricordare all'amministratore delegato della Fiat che l'Italia è ancora uno Stato di diritto, fondato su una Costituzione che colloca il lavoro al fondamento della Repubblica. Anche perché quell'amministratore non lesina dichiarazioni politiche: una volta si dichiara favorevole al Monti bis, un'altra volta risponde a un candidato alle primarie del centrosinistra (Renzi) che lo aveva accusato di «tradimento» - pentendosi della sua precedente dichiarazione del «con Marchionne senza se e ma» - bollandolo come sindaco di una «piccola e povera città».
Possibile che non ci sia modo di rispondere una volta per tutte, dai più alti livelli istituzionali, a questo personaggio che tratta l'Italia come una repubblica delle banane? Vuole esportare in Italia il modello americano delle relazioni sindacali e del lavoro, ma al tempo stesso dichiara di disprezzare le regole di diritto vigenti in questo Paese: ciò che negli Stati Uniti non sarebbe ammissibile. Proviamo a immaginare che cosa avrebbe detto Obama di fronte a dichiarazioni sprezzanti del signor Marchionne sulla costituzione americana.
Perciò, se dai colli più alti della Repubblica non viene una dichiarazione forte, penso che in supplenza tutti i candidati alle primarie del centrosinistra quella dichiarazione dovrebbero farla loro, tutti assieme, meglio se davanti alla fabbrica di Pomigliano. Ora basta: l'Italia, con i suoi molti difetti, è tuttavia ancora uno Stato di diritto e non una colonia su cui qualsiasi manager può fare scorribande impunite.


Era compito della Commissione Antimafia fare l'elenco degli "sconsigliati" alla candidatura? Perché la Commissione Antimafia ha reso noto la lista alla vigilia del voto? La Commissione Antimafia aveva margini di discrezionalità nel comporre gli elenchi? Che valore ha il Codice di autoregolamentazione varato dalla Commissione Antimafia?
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