
È presto per operare un bilancio spassionato ed equanime dei quasi vent'anni dominati da Berlusconi e dal berlusconismo. E forse è anche prematuro e imprudente darli per chiusi. Basti rammentare che ancora oggi il parlamento è quello sortito dalle elezioni del 2008 che consegnarono al Cavaliere una maggioranza senza precedenti nella storia della repubblica. Quando anche solo si lambiscono materie sensibili quali giustizia e informazione siamo bruscamente richiamati a farne memoria. Come non bastasse, a quanto pare, Berlusconi sarà di nuovo e per la sesta volta il candidato premier nostro avversario. Dunque, ancora non va dato per archiviato.
Ciononostante si è cominciato a riflettere sul recente passato e segnatamente sulle responsabilità attive e omissive di una lunga stagione che certo non ha portato bene all'Italia. Se, da più parti, si parla di ricostruzione è perché, alle spalle, sta un tempo di decostruzione se non di devastazione della coscienza morale e civile. Qualche giorno fa, sulle colonne del Corriere della Sera, Galli Della Loggia ha avviato una riflessione su tali estese responsabilità. Qualche opinionista senza peli sulla lingua - è il caso di Massimo Fini - ha reagito a brutto muso, suggerendo agli editorialisti del più influente quotidiano italiano di cominciare da sé e dal proprio cerchiobottismo. Obiezione ingenerosa verso Galli Della Loggia, che è spirito libero, ma non del tutto peregrina verso la testata e, in particolare, verso editorialisti sedicenti liberali a dir poco distratti rispetto al campione del conflitto di interessi e delle posizioni dominanti che stridono con la concorrenza e i mercati aperti.
Se si vuole avviare una discussione utile si devono abbandonare i diplomaticismi. Con questo spirito, propongo tre tesi controcorrente. La prima: tra i politici si è avuta più reattività che non dentro la società e, in particolare, nella sua classe dirigente in senso lato. Penso all'establishment economico e alle élite intellettuali, penso ai gruppi editoriali e agli operatori dell'informazione. Una tantum va riconosciuto: a fronte dell'impressionate reclutamento di un esteso ceto politico-parlamentare letteralmente cooptato, reclutato e nutrito dal Cavaliere e docilmente dedito al suo servizio, una buona metà dello schieramento politico si è battuto per contrastarne l'ascesa e l'egemonia. Spesso scontando un senso di impotenza e di isolamento. Specie nei grandi media, a cominciare dalla tv.
Mentre noi conducevamo la nostra umile, onesta battaglia democratica, larga parte dell'establishment si allineava o girava la testa dall'altra parte. Compresi alcuni ministri dell'attuale governo. Il caso francamente più sconcertante è quello dell'establishment ecclesiastico: esso, a rigor di logica, avrebbe dovuto essere il più radicalmente distante e severo rispetto a un sistema di valori e a stili di vita agli antipodi dell'etica cristiana. Manifestamente non è andata così. Talvolta, a modo di provocazione, mi verrebbe da chiedere conto agli stessi cittadini elettori che hanno dato credito a Berlusconi. Vorrei chiedere loro i danni. Non è vero che gli elettori hanno sempre ragione, contesto che siano sempre innocenti.
Seconda provocazione: la "scuola di pensiero" un po' snob, minimizzante e "benaltrista", per la quale il problema sarebbe ben altro, non Berlusconi, con il mantra fuorviante e quasi dialetticamente ricattatorio dell'accusa di antiberlusconismo. Capisco il senso: la nostra tensione oppositiva avrebbe depotenziato la nostra vena propositiva. Ma, nella comunicazione politica, quel mantra si spinge oltre. Quasi che berlusconismo e antiberlusconismo fossero due estremismi equivalenti. Come se l'antiberlusconismo inteso come energica opposizione politica e culturale non fosse un dovere o addirittura si configurasse come una colpa. Che ci potevamo fare se il dispotismo suadente e insieme protervo portava un nome e un cognome precisi? Rammento come un uomo mite e pacato come Leopoldo Elia perdesse la pazienza a fronte di un'obiezione tanto reiterata quanto capziosa e banale. Così come rammento il vero e proprio allarme levato da un maestro della democrazia liberale quale Norberto Bobbio che fece in tempo a diagnosticare la peculiarità-anomalia di Forza Italia. Non un partito democratico, non semplicemente un attore politico, ma un conglomerato di potere economico, politico e mediatico senza precedenti e senza paragoni. L'opposto della divisione-articolazione dei poteri formali ma anche reali di cui si nutrono i regimi democratici.
Terza tesi: le responsabilità remote. Se la democrazia, pur messa a dura prova, ha retto l'urto del dispotismo lo si deve essenzialmente a tre elementi: la Costituzione con i suoi congegni di garanzia e di controllo, tre presidenti della repubblica che, pur con stili diversi, ne sono stati energici custodi, l'integrazione nella Ue che, nonostante i suoi limiti, non è solo mercato ma anche comunità politica fondata su legalità, diritti, democrazia.
Resta tuttavia un interrogativo poco frequentato. Questo: come è stato possibile che, d'improvviso, gli elettori passassero in massa dal consenso a partiti democratici (di cui oggi si celebrano i meriti storici, con enfasi e persino con accenti nostalgici) a partiti quali Forza Italia e Lega. Si pensi alle regioni bianche, per mezzo secolo roccaforte della Dc, d'un canto migrate verso il forzaleghismo. Evidentemente difettavano gli anticorpi, diciamo meglio, un ethos costituzionale con radici forti e profonde nella coscienza degli italiani. Eppure i partiti democratici avevano governato per mezzo secolo. Non erano privi di strumenti utili a forgiare la coscienza civile. Penso ai ministri della pubblica istruzione, tutti o quasi affidati alla Dc. Ma penso più latamente alle molteplici agenzie culturali ed educative. Forse, oltre al debito pubblico, in quegli anni, si è accumulato anche un deficit di cultura civica e di "coscienza costituzionale" (espressione densa, cara al vecchio Dossetti, il cui cruccio era il deperimento di essa, imputabile a vere e proprie "colpe collettive").
Sono solo tre spunti un po' controvento che mi piacerebbe inaugurassero una riflessione che trascenda la dialettica politica contingente.


Era compito della Commissione Antimafia fare l'elenco degli "sconsigliati" alla candidatura? Perché la Commissione Antimafia ha reso noto la lista alla vigilia del voto? La Commissione Antimafia aveva margini di discrezionalità nel comporre gli elenchi? Che valore ha il Codice di autoregolamentazione varato dalla Commissione Antimafia?
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