
Si è parlato molto in questi ultimi anni, soprattutto in Italia, di crisi della democrazia e se ne è parlato con riferimento ai più diversi profili che la determinano. Crisi istituzionale, crisi politica ma soprattutto una crisi profonda nel rapporto tra rappresentanti e rappresentati che incide in maniera diretta sullo snodo fondamentale del sistema democratico.
Altri si occupano dei temi più direttamente politici o istituzionali, io mi soffermerò su alcune delle questioni che agiscono più a monte o più in profondità se si vuole e cioè su quei profili del sistema informativo che condizionano, a volte in maniera invisibile, a volte in maniera clamorosa e plateale il corretto svolgimento del circuito democratico. Non è un caso che la nostra Corte costituzionale in una delle sue prime sentenze in materia di libertà di espressione abbia definito l’articolo 21 della Costituzione e le norme simili che si trovano in tutti i testi costituzionali contemporanei come la “pietra angolare del sistema democratico”.
Se questo è vero dobbiamo valutare quali sono gli indici che devono essere tenuti sotto controllo per valutare le ricadute sul sistema democratico della disciplina o comunque del funzionamento del sistema dell’informazione. La questione di gran lunga prevalente è quella legata al conflitto d'interessi e all'impossibilita in tutti questi anni di approvare una legge significativa capace di porre sotto controllo un fenomeno di gravissima commistione tra interessi privati e interessi pubblici.
È vero che il conflitto d’interessi è problema che in larga misura esorbita la dimensione dell’informazione (i conflitti di questa natura possono riguardare svariatissimi campi), ma è vero che quando questo tocca il campo dell’informazione, della stampa o ancor più il campo della televisione, la miscela diventa esplosiva perché l'informazione è legata a doppio filo con i temi del consenso elettorale e un conflitto in questo campo si ripercuote immediatamente sui risultati elettorali ed il conflitto determina un vantaggio incolmabile con gli altri competitori.
È noto il dibattito che ha attraversato soprattutto la sinistra sull’incapacità di aver saputo prevenire o comunque contenere questo problema ed aver lasciato un’autostrada all'affermazione prima e al consolidamento dopo del regime berlusconiano. Certo errori di sottovalutazione ne sono stati commessi tanti, prima per non aver applicato una norma elementare come quella che ne sanciva l’ineleggibilità e poi per non aver approvato durante la XIII legislatura una legge sul conflitto d’interessi, sia pur con tutte le difficoltà connesse agli esigui numeri parlamentari; ma oggi è inutile piangere sul latte versato e bisogna dire con chiarezza che questo punto costituirà la premessa di ogni pur sintetico programma elettorale.
Questa solenne affermazione costituirebbe già una significativa e caratterizzante presa di posizione. Tanto più che costituisce serio elemento di preoccupazione il fatto che la pur fragilissima Legge Frattini che il centrodestra ha approvato nella XIV legislatura (2004) contiene una disposizione sul “sostegno privilegiato” (intendendosi quello che possono effettuare le aziende legate al Presidente del Consiglio durante le campagne elettorali) che finora l’Autorità per le comunicazioni si è guardata bene dall’applicare.
Il problema è dunque estremamente serio perché la fragilità delle regole e dell’arbitro in questo campo è un lusso che nessun sistema democratico è in grado di permettersi. Del resto non sarà certo un caso che una tale disinvoltura su questo tema resta una peculiarità tutta italiana.
La dimostrazione della fragilità delle posizioni su questo versante è dato dal rischio costante di frattura che presenta la legge sulla par condicio. Questa legge è stata approvata tra contrasti enormi nel 2000 ma dopo ben quattro anni di travagliato iter parlamentare (iniziato nel 1996 con il decreto Gambino, durante il Governo Dini, e conclusosi dopo la trasformazione in disegno di legge durante il Governo Prodi e infine diventato legge quasi al termine della legislatura).
Ebbene questa legge non ha mai avuto vita facile nel nostro paese, nonostante si fondi su una pronuncia di conformità della Corte costituzionale (n.155 del 2002) e si limiti ad affermare due principi sacrosanti: equilibrio tra le forze politiche in campagna elettorale e divieto di sondaggi e di spot in grado di avvantaggiare i più forti economicamente. Il centrodestra ha cercato costantemente di modificarla e quando ha potuto ha cercato di applicarla in modo illiberale (si pensi al divieto dei talk show in campagna elettorale fatto scaturire da un'interpretazione illegittima di un suo articolo).
Da segnalare, invece, come dato incoraggiante, il fatto che durante la più recente campagna elettorale amministrativa e referendaria, l’Agcom, opportunamente sollecitata con ricorsi ed esposti da parte di esponenti delle opposizioni ha potuto sanzionare i più vistosi strappi al principio di equilibrio nell’informazione elettorale, comminando sanzioni pecuniarie molto elevate, le più elevate della sua storia ad alcune testate televisive decisamente partigiane (Tg1, Tg4, Tg5).
Ha fatto clamore in particolare una intervista parallela rilasciata dal Premier, nella stessa serata, a ben cinque TG (anche Tg2 e Studio aperto) con caratteristiche editoriali che rendevano quelle comunicazioni simili ad un vero e proprio videomessaggio-spot. Un altro nodo irrisolto nel nostro paese è quello connesso alla legislazione antitrust in materia radiotelevisiva.
Nonostante che la Corte costituzionale abbia pronunciato diverse sentenze a partire dal lontano 1976 nelle quali con forza crescente chiedeva che fosse adottata, in attuazione del principio pluralistico e del diritto all'informazione, una seria normativa anticoncentrazioni, il legislatore è stato sordo e, in epoca più recente, addirittura elusivo.
Ormai da molti anni conviviamo con un regime basato sul duopolio e le recenti attenuazioni di questo principio ferreo sono derivate dall’ingresso sul mercato di un nuovo monopolista: Sky che ha progressivamente conquistato fette di mercato. Anche La 7 si è ritagliata uno spazio significativo, soprattutto nell’informazione: il suo telegiornale è ormai il quarto come ascolti e assai più importante quanto a credibilità. Ma nonostante questi fatti il mercato radiotelevisivo è assai lontano dall'essere caratterizzato da una fisiologica concorrenza: quando un programma come quello di Santoro, campione di incassi, è costretto a lasciare la Rai per problemi politici, stenta a trovare una collocazione su una rete concorrente.
Nonostante il passaggio al digitale che avrebbe dovuto assicurare “reti per tutti” e cioè un più ampio pluralismo, le cose non sono cambiate, i soggetti egemoni sono rimasti gli stessi e la pubblicità continua ad essere sempre nelle stesse mani. Mediaset pur perdendo ascolti continua a detenere più del 60 per cento del mercato e l’Agcom ha potuto sostenere che quello della pubblicità non costituisce un autonomo mercato rilevante. Quindi la legge che continua a regolare il sistema antitrust è la legge Gasparri, trasfusa nel Testo Unico che fissa in questo campo il limite più alto d’Europa.
Dal momento che il pluralismo è l’altra faccia del diritto all’informazione, sempre secondo le parole della Corte, la mancata attuazione del primo si ripercuote sull’attuazione del secondo ed un sistema informativo che non garantisce il diritto all'informazione è con tutta evidenza un sistema che non garantisce appieno la democrazia complessiva. L’ultima e forse più grave distorsione del sistema è comunque quella che si realizza nel servizio pubblico radiotelevisivo.
La sua finalità strategica è quella di garantire in questo settore nevralgico l’attuazione del principio costituzionale di eguaglianza sostanziale: l'art.3, secondo comma, della Costituzione che dovrebbe garantire la pienezza del diritto all??informazione ai cittadini che non possono esercitare per condizionamenti economici il diritto di manifestazione del pensiero.
Ebbene in questi anni, a partire dalla Legge Gasparri del 2004, la vera controriforma della Rai, il servizio pubblico ha imboccato una strada di progressivo decadimento. Il legame con il Governo e la maggioranza è diventato organico e il conflitto di interessi non risolto ha offerto a Berlusconi, una volta vinte le elezioni di realizzare l’en plein nel sistema radiotelevisivo. Un controllo politico, economico e clientelare.
Quello che emerge dalla lettura dei giornali di questi giorni sulla c.d. Struttura Delta, non è purtroppo che la conferma di un sistema di potere organico, incrociato e trasversale in grado di asservire il governo della televisione pubblica, non solo alle esigenze della politica, ma addirittura a quelle dell’azienda concorrente. È facile dire che tutto questo non era mai successo neppure nei momenti più bui della vita della Rai.
Gasparri nel 2001, appena diventato Ministro, era riuscito a bloccare un contratto della Rai con gli americani per la realizzazione di un partenariato, al 49 per cento, sulla società degli impianti Rai Way, che avrebbe fruttato oltre 400 milioni di euro ed avrebbe dato alla Rai di giocare un ruolo egemone nel digitale terrestre.
Indebolimento della struttura normativa e indebolimento della struttura economica sono state le mosse che hanno messo a dura prova l’indipendenza della concessionaria pubblica che si è così ritrovata a rivolgersi con il piattino in mano al Governo a dover chiedere sempre più' frequenti aumenti di canone, anche perché' la pubblicità' non tirava piu' come una volta. E sempre più' frequentemente i bilanci hanno cominciato a segnare verso il rosso. Fino a poco tempo addietro gli ascolti in qualche modo avevano tenuto, grazie anche al sostegno di alcuni programmi forti, ma con l'indebolimento di alcuni generi e soprattutto con il passaggio alla militanza dichiarata della testata leader della Rai.
Il Tg1, affidato alla dissennata direzione di un vero e proprio fan di Berlusconi, è andata dissipandosi la tradizionale credibilità della testata che è precipitata negli ascolti, causando un danno di immagine alla Rai tutta intera. Sarà difficile far riprendere la Rai dallo stato in cui oggi si trova. Anche in questo caso pare indispensabile archiviare definitivamente l’impianto di “governance” della legge Gasparri e girare pagina con una legge che segni definitivamente il distacco dalla politica. Le proposte sono molte. Abbiamo ancora il disegno di legge Gentiloni della scorsa legislatura che ho ripresentato in questa.
C’è una nuova proposta, a firma Bersani, che segna una nuova strada. A tutti io mi permetterei di fare una sola raccomandazione: evitiamo in ogni caso che l’organo deputato ad eleggere il vertice possa riprodurre in alcun modo la maggioranza politico parlamentare, perché se così fosse, non c’è maggioranza qualificata che tenga e rischieremmo di cadere dalla padella alla brace. La Rai e il paese non si possono permettere un nuovo errore.


Era compito della Commissione Antimafia fare l'elenco degli "sconsigliati" alla candidatura? Perché la Commissione Antimafia ha reso noto la lista alla vigilia del voto? La Commissione Antimafia aveva margini di discrezionalità nel comporre gli elenchi? Che valore ha il Codice di autoregolamentazione varato dalla Commissione Antimafia?
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